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appassionato.
«Non ha bisogno di dirmelo», ha detto Maria «Ma ogni tanto me lo dice anche,
non è che si sia mai fatto molti scrupoli con me, a parte agli inizi».
«Perché, agli inizi com'era?», le ho chiesto. Mi sembrava che l'ombra dei lecci
fosse sempre alla stessa distanza, irraggiungibile.
Lei ha detto: «Agli inizi mi trattava come una specie di oggetto prezioso. Certe
volte non capivo neanche se mi prendeva in giro o cosa. Mi mettevo un vecchio golf
che avevo in casa, e lui diceva che era il golf più bello che avesse visto o anche solo
immaginato in vita sua, e cominciava a descrivermi il colore e la consistenza della
lana e l'intreccio dei fili, con una concentrazione così precisa e così convinta e così
piena di entusiasmo che avevo quasi paura a muovermi. Oppure dicevo una frase e
lui diceva che la mia voce valeva più di qualsiasi pagina avesse potuto scrivere.
Diceva che il suo lavoro era insignificante rispetto a me, avrebbe buttato via un
romanzo finito pur di sentirmi parlare dieci minuti».
«E tu ci credevi?», le ho chiesto.
Maria ha detto: «Era lui che ci credeva. Non erano dei modi di dire, o una recita.
Bastava guardarlo o sentire la sua voce per capirlo. Sai quando dice che la gente oggi
non crede mai davvero a niente e non ha energia, e tutti vivono a basso voltaggio
senza mettere forza in niente di quello che fanno?»
«Si» le ho detto; la guardavo con una nostalgia insostenibile.
Maria ha detto: «Lui ci crede, quando crede a qualcosa, e ha energia, e certo non
risparmia nessuna forza. Riusciva a farmi arrivare quello che aveva dentro così forte
che mi sembrava di essere stata addormentata fino a quel momento. Mi sembrava di
avere solo avuto a che fare con dei poveri mollaccini egoisti e ciechi e sordi».
Mi ha guardato, e i suoi occhi erano pieni di dispiacere per me. Ha detto: «Ci
riesce ancora, quando vuole. Magari solo per qualche minuto al mese, ma è l'unica
cosa che mi interessa davvero al mondo».
Eravamo arrivati ai lecci finalmente, ma l'ombra che facevano era del tutto
inconsistente, e io non avevo più caldo, mi sentivo gelato dentro e perso nel vuoto
molto peggio di quando mi ero buttato con il paracadute.
Quarta parte
Tecniche di abbandono
Alla redazione Bedreghin si è accorto che non avevo una faccia normale, mi ha
chiesto: «Ti sei fatto due giorni di follia o cosa?»
In fondo non era una cattiva persona: riuscivo a leggere la traccia di
partecipazione sotto la sua finta ironia. Ma certo non avevo intenzione di sceglierlo
come mio confidente in un momento come quello; gli ho detto: «Abbastanza,
grazie», sono andato a chiudermi nella mia stanza.
Più tardi è venuta la Dalatri, mentre io stavo guardando fuori dalla finestra senza
pensare a niente.
Ha detto: «Mi avevi chiesto di dirti quando c'era del lavoro. Se hai tempo lunedì
cominciamo con il prossimo numero».
Ci ho pensato un attimo, perchè era la rivista di un ministro parte di un governo
di farabutti, e i pezzi da riscrivere erano ridicoli o indecenti; ma non avevo niente di
meglio da fare e per il momento continuavo a prendere uno stipendio in soldi
pubblici.
Le ho detto: «Ho tempo, ho tempo».
Polidori non si è fatto vivo per dire niente del mio libro, né alla redazione né a
casa. Mi chiedevo se era perchè aveva trovato brutta la nuova versione, o perchè non
l'aveva ancora letta, o perchè sapeva che io sapevo tutto da Maria e temeva che lo
odiassi. Però non ce l'avevo particolarmente con lui: anche a ripensarci non mi
sembrava colpa sua se mi ero innamorato di una sua donna. E Maria aveva detto la
verità a raccontarmi che l'aveva incoraggiata a mettersi con me, ne ero sicuro. Forse
avrebbe potuto affrontarmi direttamente quando gli avevo chiesto consigli su di lei;
ma sapevo quanto era difficile parlare di queste cose, io stesso a avevo messo mesi.
Gli ho lasciato un messaggio al numero della casa-studio, nel tono più
amichevole che mi veniva, e un messaggio attraverso la vecchia cameriera alla casa-
casa.
La mia vecchia Volksvagen era stata portata via dall'aeroporto con il carro
attrezzi, perchè l'avevo lasciata in uno spazio riservato alle macchine della polizia.
Sono andato a riprenderla in un pomeriggio di grande traffico, al deposito di un
ricettatore in combutta con i vigili urbani, ma non partiva più il motore si doveva
essere fuso nella corsa per arrivare in tempo all'aereo per Palermo, o l'avevano rotto
più tardi nel trascinarla via. In ogni caso mi sembrava un simbolo della mia vita
come la conoscevo, non ero stupito che non avesse più la forza di tirare avanti da
sola.
L'ho lasciata al ricettatore dagli occhi di marpione, gli ho detto che poteva
tenersela.
Sabato mattina mi ha telefonato Caterina, aveva una voce lontana.
Ha detto: «Non credi che forse dovremmo parlare, Roberto?».
«Va bene, parliamo», le ho detto io «Ti ascolto».
Non mi stupiva che non mi chiedesse dov'ero stato fino a quel momento, né che
il suo tono fosse più triste che seccato.
«Non al telefono» ha detto Caterina «Sono mesi che ci parliamo al telefono,
Roberto, e non riusciamo mai a dirci niente. Vengo lì».
«A Roma?», le ho chiesto, senza capire bene.
«Sì, a Roma», ha detto lei. «Ho un aereo che arriva alle due».
Ho messo giù e sono andato in soggiorno, mi sono buttato sul divano. Dalle
finestre aperte venivano i soliti suoni di Trastevere: le grida e le conversazioni di
passaggio, il rumore di motorini. Non mi pareva di essere più molto sensibile a
niente: ero anestetizzato alla radice.
Verso le tre mi è sembrato di sentire la sua voce che mi chiamava da sotto. Sono
andato ad affacciarmi tra i teloni di protezione e l'ho vista nella piazzetta: tesa ed
elegante di fianco al taxi, guardava in alto e non riusava a distinguere la mia finestra
tra le impalcature. Non le piaceva mai gridare, per temperamento e per educazione;
riusciva ad alzare il tono appena di poco. Mi è sembrato di essere in un sogno del
genere paralizzato, dove ti succede qualcosa di terribile e non riesci a muoverti:
guardavo Caterina dalla torre telata dei miei sentimenti, e mi rendevo conto di non
poter reagire come avrei voluto.
Ma sono riuscito a muovermi; le ho gridato: «Arrivo!», così forte che tutte le
persone nella piazzetta hanno girato la testa.
Sono sceso per le scale, ho aperto la porta e lei è venuta dentro. Ci siamo
abbracciati con una strana cautela formale da conoscenti, come se non fossimo più
del tutto sicuri di chi eravamo.
Sopra, lei si è guardata intorno, ed era così più familiare di Maria in ogni suo
tratto, eppure mi sembrava una sconosciuta.
Ha detto: «Carina», mentre passava lungo le pareti nude.
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